Sette e trenta del mattino. Meccanicamente strisci il tuo badge e varchi come ogni giorno il tripode che segna il confine tra il privato e l’ufficio. I tuoi passi rompono il silenzio dei corridoi vuoti a quell’ora. È tempo di dieta, decidi quindi di fare le scale. Sono solo sei piani, ti dici. Alzata dopo alzata, accelera il battito cardiaco.
It’s a long way to the top if you wanna rock’n roll… cantavi quella fresca mattina di marzo. Tu e Marco, snowboard sulle spalle, impegnati nella ferrata che vi avrebbe condotti alla vostra meta, il bus de Tofana, l’arco naturale della Regina delle Dolomiti. Anche quel giorno il cuore pulsava all’impazzata, non tanto per lo sforzo, quanto per la paura di scivolare, cadere giù su quel bianco materasso di neve, quaranta metri più in basso.
Centoventi! Li conti ogni mattina quei gradini, fino a quando non raggiungi il pianerottolo e ti sembra finalmente di poter planare per poi subito schiantarti dopo pochi metri contro una massiccia porta blindata. Nera. Chiusa.
Aperto, celeste. Hai attraversato il portale di roccia quel giorno con un impeto probabilmente comparabile a quando uscisti dalla vagina di tua madre. Attraversi ogni giorno quell’orrido portale di acciaio e vetro con la rassegnazione con cui un carcerato rientra nella sua cella dopo l’ora d’aria. No alarms and no surprises, canticchi nella monotonia del gesto quotidiano. Non oggi. Oggi ha fatto presto anche il Borlotti, il collega più insopportabile di tutto il piano. Saputello. Loquace, troppo loquace. Si frappone tra te e la porta del tuo ufficio. Comincia a parlarti: «Dovremmo riconsiderare le nostre previsioni nel piano di impresa» e blah blah blah… Le sue parole echeggiano in qualche meandro del tuo cervello e si affievoliscono sempre più. Allarghi le gambe e inizi a oscillare. Destra, sinistra. Destra, sinistra. Oscillando a destra e a sinistra, scarponi ben allacciati agli attacchi della tua tavola, hai cominciato a scaldare giunture e muscoli intorpiditi dal freddo. Di fronte, una paradisiaca vista sulle cime del Cadore. In basso, la tua tavola in equilibrio instabile sul baratro. Tremore, vertigini, ansia. Non avevi mai visto una pista così ripida e il manto non era immacolato e farinoso come te lo aspettavi. Uno sguardo nuovamente verso le vette antistanti per rifiatare, poi a sinistra, il sorriso di Marco che ti ha fatto riacquistare la calma. La quiete prima della tempesta. Il Borlotti è la tempesta. Lo scontro tra l’aria fredda delle sue parole tecniche e il tepore del tuo torpore mattutino genera un vortice di fastidio che ti fa pentire di esserti svegliato questa mattina. Inaspettato, senti squillare il telefono dell’ufficio. «Perdonami ma devo rispondere» dici, fiondandoti nella stanza.
Fiondandoti giù per la discesa, la tavola ha acquistato subito una velocità smodata. Cuore in gola, prima curva in front, poi in back, in front ancora, in back e in front nuovamente. Troppe sollecitazioni. Devi rallentare!, hai pensato, stringendo la traiettoria per risalire in fretta verso monte. Raggiunta un’andatura sicura, hai iniziato a ruotare il braccio sinistro verso valle e a spingere sui talloni per impostare la prossima curva. Sei caduto. Like a rolling stone, il mondo che si capovolgeva e tornava nel verso giusto per poi capovolgersi nuovamente e così via in rovinosi capitomboli che sembravano senza fine. Cento metri più in basso è terminata quella folle giostra. Stordito, ti sei seduto.
Comodo sulla sedia del tuo ufficio, grato a Bell per la sua salvifica invenzione, alzi la cornetta. È il tuo capo che ha corretto la relazione e, complice la sua solita ansia da Consiglio di Amministrazione, inizia a vomitare sproloqui nei tuoi confronti. ¡Ay! que dolor!
Brucia l’orgoglio ferito dalle offese e offesa dalla roccia, bruciava la spalla. ¡Ay! que dolor!
02 maggio 2022 – Andrea Talamonti ©