Da troppo tempo non provava più il piacere di un tiepido sole primaverile che scaldasse la sua liscia pelle. Ingiustamente, pensò.
Domenica mattina. Nella penombra, seduta sul letto della sua piccola stanza del centro anziani di San Pancrazio, Anna guarda e scruta l’orizzonte attraverso la finestra aperta, grata della meraviglia che solo Villa Pamphili sa generare nell’animo, in quel particolare periodo dell’anno.
Si alza di scatto e raggiunge il davanzale assolato. Pochi istanti e i suoi occhi si abituano al passaggio dalla penombra della sua spoglia stanza alla ricca luce di un sole primaverile di estive pretese.
Avida di particolari, come fosse la prima volta che si affaccia da quella finestra, mette a fuoco ogni minimo dettaglio della distesa di verde che le si pone di fronte, oltre il parcheggio, dove un’ambulanza vuota, giace con il portellone posteriore aperto e il lampeggiante acceso, ma silente.
Sembra piacevolmente soddisfatta di riuscire a distinguere ogni singola espressione che la natura rigogliosa di quel luogo intende donarle. Dai maestosi pini, come lei centenari, muti testimoni delle effimere vicende degli umani, fino alle umili margherite, fragili creature a cui gli stessi umani affidano il loro cuore – m’ama o non m’ama.
Ode distintamente i canti dei volatili nella stagione degli amori ed il vociare lontano degli esseri umani che cercano un’oasi nell’arido deserto della loro quotidianità.
Sull’edificio, da cui sovrasta e domina quel pacifico ed armonioso paradiso terrestre, s’infrange con la violenza di ripetute raffiche di burrasca, il caos che regna alle sue spalle.
Protetta dalle spesse mura della sua stanza, come una regina crudele che ignora le grida di dolore del proprio popolo, Anna volge le spalle alla sua gente e si erge indifferente ed immobile con un ghigno malefico stampato sul suo volto.
Un sorriso che non le appartiene – anomalo, lo definirebbe chi Anna la conosce bene, la tenera e dolce nonnina di centun’anni, la veterana del gruppo, l’anziana più benvoluta della casa di riposo.
Cullata dalla mite temperatura, Anna continua ad assaporare il vortice di sensazioni, sopite da troppi anni, che il suo corpo rinnovato le dona, noncurante del suono della sirena di una volante della polizia che rapida si avvicina e delle urla che provengono dal refettorio.
Voci straziate e lamentose che raccontano di una delle novizie appena alzatasi dal letto, del suo recarsi in bagno per le abluzioni mattutine, della sua perdita dell’equilibrio.
«Un disturbo senso-percettivo» dicono, che le aveva causato la sua goffa caduta a terra.
«Come un fico secco» commentò un’operatrice.
L’eco delle proprie urla di aiuto era rimbalzato innaturale nella testa della novellina e con orrore, quando il flusso di voci dei primi soccorritori erano arrivate alle sue orecchie confuso e a malapena udibile, la giovane aveva realizzato di aver perso gran parte della capacità uditiva.
Era l’ultimo di strani eventi che in quell’ultima settimana si erano susseguiti e che avevano colpito il personale di assistenza della struttura.
Il primo caso era avvenuto di lunedì. La sera prima Anna era andata a dormire più presto del consueto. Un pensiero fisso e un’insolita stanchezza l’avevano colta di sorpresa. Finita la cena, dopo aver salutato affettuosamente tutte le coinquiline e le infermiere di quel turno di servizio, si era recata nella sua stanza con il suo deambulatore, preceduta dalla giovane Elsa che l’avrebbe aiutata a prepararsi per la notte.
In maniera del tutto inaspettata, Anna si era ritrovata a fissare il corpo scultoreo della giovane infermiera, soffermandosi in particolare su quelle gambe e su quelle spalle così perfette da far trasparire la loro bellezza e possanza anche da quegli abiti così insulsi che nulla avrebbero potuto valorizzare, se indossati da chiunque altro.
Invidia, avrebbe pensato, se solo quel sentimento le fosse mai appartenuto.
Terminate le operazioni propedeutiche al sonno, dopo aver abbracciato calorosamente e ringraziato l’infermiera, Anna si distese sul letto che mai le era apparso così morbido. Una preghiera di ringraziamento e quella notte, Anna cadde in un sonno pesante e sereno, contrariamente a ciò che accadde alla povera Elsa che, colta da improvvisi atroci dolori articolari, non chiuse occhio e l’indomani dovette chiedere di essere sostituita.
L’ardito volo radente di una rondine la riporta al presente.
Anna sorride cinica ripensando alla naturale semplicità con cui questa domenica mattina si è alzata da letto e si è recata alla finestra che ha aperto senza provare i soliti dolori alla spalla. Il deambulatore, ricoperto da un sottile strato di polvere di un settimanale inutilizzo, unico compiacente e omertoso testimone del miracolo.
Lascia che la leggera brezza mattutina accarezzi i suoi capelli rinnovati nella foltezza, nella tinta, nella lucentezza e nella loro cheratinica resistenza. Sorride, immaginando lo stupore che si genererebbe sui volti di tutti se solo venissero a sapere che lei è la causa dell’improvvisa alopecia – il secondo strano caso, avvenuto di martedì – che ha colpito Suor Agnese, il cui unico peccato in vita era quel pizzico di vanità che ostentava per i lunghi capelli castani che le scendevano fino ad accarezzarle i fianchi.
Anna non aveva più avuto tempo per la sua vanità da decenni. Troppo giovane, aveva dovuto affrontare la quotidianità da sola con 4 figli da accudire. Troppo giovane, aveva rinunciato a sé stessa per dedicare la propria vita agli altri.
Proprio con questo pensiero in testa, spossata, la domenica precedente aveva chiesto di essere accompagnata a letto da Elsa.
Nel buio della sua camera, quella notte, aveva ricostruito gli ultimi anni che l’avevano condotta a voler concludere la sua esistenza in un ospizio.
Si meravigliò nel ricordare che fu lei stessa a richiedere di essere mandata in un centro anziani. «Perché non sopporto più che le badanti si comportino come padroni in casa mia» aveva detto ai propri figli, cercando di mascherare il reale motivo di non voler più pesare su di loro. «Pesare su di loro!» si ritrovò a pensare colei sulle cui spalle tutti avevano pesato per anni.
Lo scavare nel passato risvegliò in lei ricordi di antichi riti tramandati da generazioni tra le donne della sua famiglia. Riti, dimenticati e accantonati dalla senilità in fondo ad un cassetto nei meandri della memoria. Dove la religione cattolica, cui erano profondamente devoti, si mescolava con culti pagani di antiche leggende calabresi.
La madre l’aveva iniziata al culto della Dea fin da piccola, raccomandandole di farne sempre un uso accorto, «Perché la Dea sa essere crudele e ciò che la Dea dà a te, lo toglie a qualcun altro» l’aveva ammonita la madre.
Anna aveva sempre rispettato i dettami della madre e aveva fatto ricorso alla Dea raramente, non dimenticando mai comunque di ringraziarla ogni sera.
Così, nel corso degli anni, la Dea l’aveva sempre protetta e le aveva concesso le gioie di figli, nipoti e pronipoti speciali, «I migliori di tutti», diceva sempre con un pizzico di orgoglio. Solo un paio di volte la Dea si era distratta, o forse qualche altra strega aveva saputo pregarla meglio di lei: quando la morte le aveva portato via un figlio mai nato e, troppo presto, il suo adorato marito Francesco.
Francesco, Ciccio, luce dei suoi occhi, l’unico amore della sua vita.
Prima di addormentarsi, Anna pregò la Dea invocando il suo aiuto per farsi restituire quello che la vita le aveva tolto lentamente, ma con inesorabile metodicità.
La Dea agì tutta la settimana con crudele dovizia pur di soddisfare la sua devota preferita.
Il primo desiderio furono appunto gli arti tonici di Ines, seguiti poi dai capelli di Suor Agnese.
Il terzo giorno scippò l’olfatto di Rachele, l’estetista esperta di profumi, che una volta a settimana passava a truccare le anziane ospiti del centro, perché anche nella decadenza della carne, il capitolo finale di un’esistenza deve essere sempre recitato con eleganza e femminilità. Seguirono il cuore e i polmoni di Enrico, l’istruttore di ginnastica che quella notte ebbe una crisi cardiaca e non si svegliò più e gli occhi di Mariasole, la moglie di suo nipote Andrea, dieci decimi di umida nocciola in cui annegare, la cui unica colpa era la fortuna di guardare ogni giorno colui che più assomigliava al suo amato marito.
Per la scelta del cervello, non vi furono dubbi. La giovane Madre Priora aveva un’intelligenza sopraffina e la sua laurea, conseguita in una delle migliori università italiane, sarebbero state il giusto premio per Anna che aveva dovuto rinunciare agli studi sin da piccola.
La settimana passata a letto fingendosi malata passò quasi inosservata grazie al trambusto generato dagli scellerati accadimenti di cui erano cadute vittime il personale della struttura geriatrica. Quella domenica mattina, rinnovata nel corpo e nello spirito dai doni della Dea, Anna aveva quindi deciso che fosse arrivato il momento di alzarsi e testare il suo nuovo essere.
Inebriata dalle sensazioni da tempo dimenticate, Anna è pervasa da un’euforia che sfocia nel delirio. L’osservazione dalla finestra si tramuta in una ricerca spasmodica ed ossessionata di dettagli e particolari con cui nutrire la propria rinnovata fame di vita.
Dettagli man mano sempre più nitidi che in principio hanno il sapore del “fu vissuto” ed i vaghi lineamenti del “fu amato”, fino a concretizzarsi nella figura proprio di quell’uomo che con passo deciso, dal parco, si dirige verso di lei.
«No, non può essere lui!» sussurra, mentre le lacrime iniziano a solcare il suo viso.
Anna trema e teme che il suo corpo stia rigettando la refurtiva trapiantata dalla Dea o che peggio i nuovi organi le stiano giocando dei brutti scherzi per vendicarsi della separazione coatta dai loro legittimi padroni.
Socchiude e apre nuovamente gli occhi nella speranza che l’inganno sia svanito, ma si deve arrendere all’evidenza quando la figura di Francesco si staglia sotto la finestra.
Un semplice sorriso ed il cenno della mano a chiederle di scendere sbriciolano il muro di diffidenza che Anna aveva invano provato ad erigere, convinta ormai che si tratti dell’ultimo atroce dono della Dea. «L’anima di quale ignara e misera vittima è stata sacrificata affinché Ciccio possa essere tornato in vita», continua a ripetersi nella sua mente, lacerata dal rimorso del suo primo gesto di egoismo che abbia mai potuto compiere in vita sua.
Deve necessariamente rimediare.
Prega la Dea di ripristinare il corretto corso dell’esistenza di tutti, ma le chiede anche di concederle ancora solo pochi secondi di quel corpo così rinnovato per poter riabbracciare Francesco con la stessa passione e con lo stesso vigore della giovinezza perduta.
«Eccomi amore» grida Anna. Si volta di scatto per dirigersi in fretta verso le scale, ma subito si arresta.
La Dea le sorride, in piedi, accanto al letto, mentre accarezza con fare materno l’Anna distesa sotto le coperte, sul cui esanime volto vive il più dolce dei sorrisi e dei sonni.